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La Tutela della Salute e la Prevenzione del Fenomeno Doping nel ciclismo.
Regolamenti internazionali e nazionali. Normative vigenti
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Risponde dott. ROBERTO CORSETTI
Specialista in Cardiologia e Medicina dello Sport Direttore Sanitario Centro Medico B&B - Imola Medico Sociale Liquigas-Doimo Presidente Associazione Italiana Medici del Ciclismo (A.I.Me.C.) 26 Ottobre 2011
INTERVISTA ESCLUSIVA DI CICLONEWS.IT
Dott. Corsetti, per i nostri lettori vorremmo cercare di capire qualcosa di più dell’intricato sistema delle visite di idoneità allo sport agonistico e non in Italia.
Iniziamo l'intervista.... (Leggi la risposta)
Cosa pensa delle recenti morti di Pietro Ferrero e Andrea Pinarello? Provo un grande dolore. Parliamo di due appassionati del ciclismo e della bicicletta, due rappresentanti eccelsi dell’Italia nel mondo; perdite, quindi, insostituibili. Non posso che essere vicino ai familiari.
E dal punto di vista medico più stretto queste due morti improvvise non le fanno pensare nulla? In effetti nulla di particolare. Ritengo che due persone di tale livello avessero sicuramente affrontato e superato tutti i controlli necessari, anche i più accurati. Mi viene da pensare, pertanto, che sia nell’uno che nell’altro caso si possa essere trattato di morti che non potevano essere previste.
Un fenomeno tanto drammatico, cioè la morte improvvisa di una persona che pratica sport, ci deve far riflettere? Certamente si. La morte cardiopatica improvvisa nei giovani, apparentemente sani, è un fenomeno che colpisce ogni anno più di mille giovani di età inferiore ai 40 anni e 8 donne su 100 mila tra i 30 e i 45 anni. Quindi si tratta di un fenomeno importante anche perché drammatico.
Il vero antidoto di un evento tanto importante e drammatico? Va precisato, innnzitutto, che per fortuna parliamo di un fenomeno raro. L’antidoto vero e unico è la prevenzione.
In tal senso in Italia cosa si fa? L’Italia è uno dei pochi paesi europei che si è data una precisa normativa a riguardo e, pertanto, secondo quanto dettato da una normativa di legge dal 1982, tutti gli individui che praticano attività sportiva a livello agonistico e anche a livello non agonistico la prevenzione devono farla obbligatoriamente attraverso quella che noi tutti conosciamo come la visita di idoneità allo sport agonistico e/o non agonistico. Al contrario in altri paesi tale obbligatorietà e quindi tale strumento preventivo è assente (Inghilterra, Olanda, Spagna, Stati Uniti, ndr).
Quello della pratica delle attività sportive a livello non agonistico è un fenomeno numericamente importante. Incide molto in questa tematica? Sicuramente si. Forse riveste il peso maggiore perché in Italia sono numerosissimi gli sportivi della domenica che praticano attività senza fini agonistici a livello ludico e ricreativo. Probabilmente a tale numeroso bacino di utenti vanno indirizzate le attenzioni maggiori dal punto di vista dell’informazione. Dobbiamo inviare messaggi chiari che valorizzino la necessità di visite preventive perché è probabilmente tra questi sportivi che si annidano i casi più frequenti di persone che non effettuano la visita o che non la effettuano nella maniera corretta. I maggiori sforzi devono essere diretti nella direzione di quanti pratichino attività sportive a livello ludico-ricreativo e/o entry level, attività per le quali, spesso, non viene richiesta nessuna certificazione ma che ugualmente sono ad alto rischio, specie se trattasi di discipline sportive ad elevato impegno cardiovascolare.
Un esempio? Un professionista di 45 anni che ha una vita molto stressante perché svolge un’attività lavorativa molto piena e stressante, che ha una famiglia, dei figli, che ha degli obblighi e delle responsabilità, decide di incominciare a praticare il ciclismo. Il ciclismo non è certo lo sport più semplice. Probabilmente per noi che lo amiamo è il più bello; sicuramente fa molto bene ma non a tutti in maniera indiscriminata. Noi, però, sappiamo anche che è tra i più impegnativi a livello cardiovascolare. Non è corretto affermare che la pratica non agonistica del ciclismo sia di gran lunga meno impegnativa per il cuore rispetto all’agonismo. Se un individuo non allenato, non sottoposto a nessun controllo medico preventivo, specie se in età adulta, matura e/o avanzata e soggetto a stress per le responsabilità professionali e familiari, decide di andare a scalare una qualsiasi salita impegnativa anche a ritmo lento, il suo cuore viene sempre e comunque sottoposto ad uno sforzo importante. Se l’organo non è in salute l’individuo, è cosa certa, corre un potenziale rischio.
Cosa si può fare? Innanzitutto ci dobbiamo tutti rimboccare le maniche. Cominciamo a considerare che in Italia, se è vero che esiste una normativa che tutela le attività sportive e la salute degli sportivi agonisti e non, è altrettanto vero che tale normativa è stata emanata nel 1982 e non è mai stata cambiata nemmeno di una virgola. Dal 1982 ad oggi sono passati 30 anni e la scienza ha fatto passi da gigante. Le acquisizioni in ambito medico sportivo sono cambiate e migliorate in maniera evidente e sensibile. Probabilmente è arrivato il momento di rivedere quella normativa e di rivederla in maniera profonda. O no? E ancora. Le visite di idoneità sono obbligatorie. Ma vengono realmente effettuate da tutti coloro che hanno l’obbligo di effettuarle? Siamo certi che questo accade?
Perché questo dubbio? Perché l’attuale normativa lascia la responsabilità dell’effettuazione della visita al presidente della società dell’atleta o al presidente del circolo sportivo o della palestra nella quale l’individuo pratica l’attività. Ciò cosa vuol dire? Che, ad esempio, il presidente di una società cicloturistica e/o cicloamatoriale, all’inizio dell’anno prima di richiedere il tesserino per i suoi atleti alla FCI o all’ente della consulta di riferimento (l’Udace, l’Uisp, etc.), è tenuto ad essere in possesso dei certificati di idoneità di tutti gli atleti. Il decreto recita infatti che il Presidente può fare richiesta di tesseramento solo per gli atleti per i quali sia in possesso di un regolare e valido certificato di idoneità. Così per tutte le discipline e attività sportive a qualsiasi livello esse vengano praticate. In realtà, sembra, ci siano molti presidenti, soprattutto nel centro-sud, che tale norma o non la conoscono oppure, pur conoscendola, la sottovalutano non rendondosi conto dell’enorme responsabilità civile e penale che si assumono. E’ verosimile poter ritenere, se ne è quasi certi, che in Italia non vengano effettuate tutte le obbligatorie visite di idoneità allo sport.
Sembra anche ci siano certezze in tal senso? Guardi, non molto tempo fa, sul settimanale Panorama è uscito un articolo del giornalista Marco Bonarrigo che, a mio avviso, un pochino avrebbe dovuto far riflettere. Bonarrigo ha di fatto scoperchiato la pentola. Non tocca certo a noi, ed in particolare a me, verificare la veridicità di alcuni passi di quell’articolo. Ritengo, tuttavia, che debba essere rivisitato al più presto tutto il sistema normativo della tutela della salute delle attività sportive in Italia.
Ci potrebbero essere altre irregolarità? Si dice che molto spesso, pare più nel centro-sud, le visite vengano effettuate in luoghi non regolamentari, non riconosciuti dalla legge, non idonei e in assenza degli strumenti necessari. Sono voci che girano nell’ambiente medico sportivo. Una verifica potrebbe essere opportuna o forse necessaria.
Ci sono altri aspetti negativi? Un altro aspetto grossolanamente negativo è la corsa al ribasso dei prezzi dei costi di tali visite nell’ottica di fenomeni di concorrenza sleale. Ciò avviene più in alcune regioni che in altre. Una corsa, comunque, folle e pericolosa perché probabilmente chi abbassa i prezzi delle visite poi punta a raggiungere lo stesso guadagno quotidiano effettuando un maggior numero di visite. Più visite equivale a minor tempo e minori attenzioni per ciascuna visiata.
Come si può contrastare la diffusione di tali fenomeni? Ci auguriamo che siano fenomeni circoscritti e che non siano frequenti. E’ chiaro però che, visto che si parla di tutela della salute e della vita degli individui, se tali fenomeni veramente esistono è necessario che siano severamente contrastati dagli enti e dalle autorità di controllo, dalla magistratura ordinaria e, perché no, anche dai Nas.
Addentriamoci un pò di più nel problema specifico della tutela della salute degli sportivi. Dimentichiamo spesso e troppo facilmente che in Italia la causa più frequente di morte nei soggetti che hanno superato i 35 anni di età, in tutti i soggetti sportivi e non, è la patologia cardiovascolare; non le neoplasie (tumori) e tantomeno l’aids. I mass media, negli ultimi decenni, stanno trasmettendo un messaggio che può essere fuorviante, cioè che le maggiori attenzioni in ambito di controlli preventivi debbano essere rivolte all’abbattimento del rischio di potersi ammalare di tumore o di aids. Non è così. La causa più frequente di malattia e di morte è rappresentata di gran lunga dalle patologie cardiovascolari. Ciò deve essere fatto passare per via mediatica in maniera insistente, diretta e più convincente. Incredibilmente, poi, sulle malattie cardiovascolari, sull’ infarto, sulla morte improvvisa aritmica, i controlli preventivi possono garantire un grande successo, molto più grande di quanto può fare la prevenzione in ambito di tumori o altro. Si pensi che basterebbe effettuare un test da sforzo massimale al cicloergometro a tutti i soggetti di sesso maschile che hanno superato i 40 anni e a tutti i soggetti di sesso femminile che hanno superato i 47-48 anni per ridurre prepotentemente e in maniera significativa l’insorgenza dell’infarto miocardico e della morte improvvisa aritmica.
Perché questo messaggio non passa? Non vorrei che il motivo possa essere quello che tutti si affretterebbero a prenotare un test da sforzo e che, inevitabilmente, prenotazioni di massa potrebbero far scoprire che le capacità di soddisfare tali prenotazioni nell’ambito del servizio sanitario pubblico non esistono e non esisteranno, considerata la crisi, nel futuro prossimo. Tutto ciò riveste poca importanza se l’obiettivo è quello di tutelare la salute degli individui e degli sportivi. Dobbiamo tracciare una via nuova e quella via la dobbiamo percorrere fiduciosi soprattutto perché in Italia esiste una normativa che rende obbligatorio effettuare una visita e alcuni esami strumentali specifici contemplati in quella visita.
E nei paesi che invece quella obbligatorietà non la prevedono i ricercatori cosa dicono? I medici ricercatori nei paesi europei ed extraeuropei che non prevedono l’obbligo della visita di idoneità ci criticano. Lo fanno da anni, dicendo che non vale la pena effettuare più di un milione di visite di idoneità, con costi quindi molto importanti, per salvare la vita di pochissime persone. Siamo criticati perché, a loro avviso, il nostro sistema di prevenzione è inefficace per quanto riguarda il rapporto costi-benefici.
Lei a proposito cosa pensa? Io vengo da una famiglia cattolica, ho conseguito la laurea e le specializzazioni in Cardiologia e in Medicina dello Sport presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. E’ chiaro quindi che, a mio parere, bisogna fare tutto quanto è umanamente possibile per salvare anche solo una vita umana e pertanto sono assolutamente favorevole all’esistenza di una normativa che preveda l’obbligatorietà delle visite di idoneità.
E’ favorevole in modo incondizionato? Assolutamente no. Bisogna rivedere in tempi rapidi ed in maniera profonda tutto l’impianto normativo della tutela della salute degli sportivi in Italia. Una normativa nuova, applicata in modo preciso e circostanziato su tutto il territorio nazionale, è la vera necessità del momento.
Quante visite di idoneità agonistiche si effettuano in Italia? Non si sa con precisione.
Orientativamente quante visite di idoneità non agonistiche si effettuano in Italia? Ancor di più non se ne può conoscere il numero.
Ma perché ciò? E’ il primo grande problema. Con la nostra normativa, vecchia di 30 anni, ci proponevamo l’obiettivo di evitare eventi drammatici e impedire che potessero praticare attività sportiva soggetti che, per la presenza di specifiche patologie, non erano in condizioni di poterlo fare senza correre rischi più o meno importanti. Se davvero si vogliono raggiungere tali obiettivi, il segreto sta nel conoscere perfettamente il nemico che vogliamo sconfiggere. Se vogliamo decapitare la morte improvvisa da sport, dobbiamo sapere quali sono le patologie che innescano quell’evento drammatico, come si presentano, che segni e sintomi danno, come si possono prevenire nell’ambito delle visite di idoneità. Dobbiamo conoscere quali segni clinici devono rivestire più valore rispetto ad altri e a quali sintomi è necessario dare la giusta importanza. Dobbiamo studiare il fenomeno e conoscerlo meglio. Attualmente stiamo facendo molto poco in tal senso. In Italia non abbiamo un osservatorio statistico ed epidemiologico della tutela della salute delle attività sportive, perché non sappiamo quante visite realmente vengono effettuate, quante persone vengono considerate inidonee, per quali patologie risultano inidonee, in quali regioni piuttosto che in altre, in quale categoria di sportivi (età, sesso, livello di pratica, fattori di rischio etc.)
E’ grave. Come si può risolvere una simile problema? E’ necessario utilizzare l’informatica. Oggi le più grandi società, le aziende, e tutta la tecnologia si sono legate prepotentemente all’informatica e alle indagini statistiche. Continuare a fare visite in piccoli paesini, in piccoli studi medici, utilizzando la penna e la carta può essere un errore fatale. Non vuole essere recepita la necessità di creare un osservatorio epidemiologico e statistico centralizzato. Da anni, credo almeno 5, propongo l’adozione di un software unico che venga utilizzato da tutti i Medici dello Sport che in Italia rilasciano certificati di idoneità, sia in ambito pubblico che in quello privato. Un unico software utilizzato in tutti i comuni, le provincie e le regioni e, pertanto, in tutti gli studi e gli ambulatori accreditati ad effettuare visite di idoneità.
Quali sarebbero i vantaggi utilizzando uno strumento informatico di questo tipo? Utlizzando un’ottima base informatica, quindi in grado di fare statistica, finalmente potremmo conoscere il fenomeno e avere anche più possibilità di controllare il sistema ed evitare quanto prima avevamo descritto non essere del tutto regolamentare. Sarebbe fantastico poter studiare, dal punto di vista statistico ed epidemiologico, tutte quelle patologie che possono, con la pratica delle attività sportive, portare ad eventi drammatici o comunque al peggioramento dello stato di salute dell’ individuo.
Un obiettivo del genere è costoso? Assolutamente no. Pensi che, dal 2004, utilizzo un software preparato con la collaborazione di due miei amici programmatori ed analisti. Tale software, attualmente, è in grado di soddisfare tutte le piccole, e mi consenta spesso davvero inutili, differenze normative previste nel Lazio, piuttosto che in Toscana, e, ancora, in Emilia Romagna. Quello del software centralizzato è’ un passo importante perché tutti i Medici dello Sport finalmente contribuiranno a creare un archivio centrale di dati che ci consentiranno di aumentare le conoscenze e le “capacità preventive” di ciascun operatore periferico.
Cosa fare ancora? Ritengo sia arrivato il momento di rivedere la normativa del 1982. Trent’anni sono tanti, per la scienza medica un tempo infinito. Se ricordo cosa era la medicina trent’anni fa e cosa è oggi mi vengono i brividi nel pensare che stiamo ancora attuando un decreto legge del 1982. Va rivisto. E, gioco forza, va data una importanza preponderante nell’ambito della visita all’aspetto cardiologico. Anche se attualmente non disponiamo di dati su scala nazionale, la quasi totalità delle motivazioni di inidoneità assoluta e/o temporanea all’attività sportiva in Italia è rappresentata da una patologia cardiovascolare. Quindi il cuore deve diventare l’obiettivo primo delle nostre indagini. La normativa va riconsiderata proprio alla luce di tale dato di fatto.
Rivedere la normativa, dunque, come primo passo. Qualche esempio? Allo stato attuale, in Italia, è possibile che un’atleta ciclista agonista di categoria juniores internazionale (17-18 anni) possa avere il tesserino come ciclista agonista, fare oltre 60 gare all’anno e tutti gli allenamenti necessari, avendo eseguito la visita di idoneità semplicemente con un elettrocardiogramma a riposo ed un altro effettuato dopo che per tre minuti l’atleta è salito e sceso da un gradino di 40 cm. Dal momento in cui l’atleta termina l’esercizio, prima che possa essere effettuato il secondo ecg, passa sempre tutto il tempo necessario perchè egli si riposizioni sul lettino e il tempo che occorre al medico per riposizionare sul torace e sugli arti tutti gli elettrodi. In pratica quel soggetto potrà essere riconosciuto idoneo avendo fatto due elettrocardiogrammi. Il primo assolutamente a riposo, il secondo quasi a riposo perché è intuitivo che un atleta di quel livello, trascorso più di un minuto dalla fine dello sforzo, ha perfettamente recuperato e quindi è nuovamente tornato in condizioni quasi sovrapponibili al riposo iniziale. Troppo poco impegnativo il test e troppo il tempo dalla fine del test all’esecuzione del secondo ecg, quello dopo sforzo. L’attuale normativa consente di fatto che un atleta agonista di categoria elevata possa affrontare uno sport ad elevato impegno cardiovascolare facendo due elettrocardiogrammi in condizioni di riposo o quasi. Rinunciamo a vedere e valutare, con questo sistema di cose, tutto quello che accade durante lo sforzo, il momento più delicato e nel quale più spesso si slatentizanno segni elettrocardiografici importanti. Lo sforzo imposto dalla normativa attuale, lo step test che prevede di salire e scendere da un gradino per tre minuti, per tantissimi atleti, quasi tutti direi, è insufficiente. Si tratta di una scelta normativa molto discutibile sotto il profilo scientifico e delle attuali conoscenze di prevenzione delle patologie cardiovascolari.
E quindi c’è veramente tanto da fare? Si c’è tanto da fare. Ma anche vero che sarebbe opportuno che si interessino del futuro in ambito normativo solo i tecnici veri, ossia quei professionisti che conoscono profondamente e molto da vicino il problema.
Lei in particolare cosa propone? Propongo innanzitutto, insieme ad altre cose che non è il caso di approfondire per ovvie questioni di spazio, che sia al più presto reso obbligatorio l’effettuazione di una visita preventiva che comprenda una prova sotto sforzo, nella quale pertanto venga esaminato durante e non solo alla fine dello sforzo, sia l’andamento dell’elettrocardiogramma che quello della pressione arteriosa. Una visita comprendente una vera prova da sforzo dovrà essere effettuata da tutti i praticanti, sia a livello agonistico che non agonistico, qualsiasi tipologia di disciplina sportiva.
A questo punto il medico che effettua una visita del genere deve avere grosse competenze cardiologiche? E’ essenziale. Ritengo, pur riconoscendo che forse questa frase può far male a qualcuno, che in Italia non possano rilasciare certificati di idoneità colleghi che non abbiano conoscenze valide e profonde di cardiologia e di cardiologia dello sport in particolare. Le scuole di specializzazione dovrebbero pertanto adeguarsi a tale specifica esigenza. Attualmente non per tutte è così.
E per il futuro lei a cosa pensa? Ritengo che sia opportuno inserire il sistema che io definisco della “split decision”. Un sistema che deve diventare opertivo in tutti i casi dubbi, anche solo minimamente dubbi. Intendo riferirmi a tutte quegli sportivi che presentino piccoli segni o sintomi di possibile cardiopatia, che abbiano subito qualsiasi tipo di intervento cardiaco o che mostrino dubbi diagnostici di tipo cardiovascolare. Per tutti costoro dovrebbe essere stabilito che la rituale visita di idoneità possa essere effettuata in futuro solo ed esclusivamente in centri medico sportivi di secondo livello, centri diretti, quindi, da un cardiologo con competenze elettive di cardiologia dello sport.
Che cosa intende per secondo livello? Le visite di idoneità allo sport agonistico e non in Italia possono, e dovrebbero anche in futuro, essere effettuate sia nel pubblico che nel privato, sempre in presenza di uno specialista in medicina dello sport e all’interno di uno studio e/o di un ambulatorio accreditato. Tali caratteristiche sono richieste e dovranno essere richieste anche in futuro alle visite di primo livello. Lo studio e/o l’ambulatorio in cui si svolge la visita dovrà essere in possesso della dotazione strumentale che è necessaria a rispettare la normativa vigente. Quando ci si trovi di fronte ad un soggetto che presenta dubbi diagnostici, tale visita di idoneità non la potrà e non la dovrà effettuare il Medico dello Sport che lavora in un centro di primo livello, ma essa dovrà essere rimandata all’analisi critica di un centro di secondo livello, nella quale cioè sia possibile effettuare un ecocardiogramma color doppler, un Holter ecg delle 24 ore, un Holter pressorio e, in genere, esami cardiologici strumentali approfonditi. Chiaramente sarà necessario che il centro di secondo livello debba essere necessariamente diretto da un Medico dello Sport con una Specializzazione aggiuntiva in Cardiologia o viceversa.
E il terzo livello? Costituirà l’apice della piramide e rappresentato da quelle strutture pubbliche o private che siano in grado di effettuare esami invasivi come ad esempio un esame coronarografico, un cateterismo, uno studio endocavitario, quindi esami cardiodiagnostici invasivi.
Quanti centri di secondo livello dovrebbero esserci? Ritengo che il numero debba essere stabilito in funzione della popolazione degli sportivi. Se penso ad una regione come quella nella quale io lavoro, cioè l’Emilia Romagna, ritengo che un paio di centri di secondo livello possano essere sufficienti. Insieme ad uno o due di terzo livello per il Nord, altrettanti per il Centro come pure per il Sud. Certo mi piace sottolineare che tali centri, e cioè quelli di secondo e terzo livello, dovrebbero essere equamente ripartiti tra pubblico e privato, quindi se un centro è pubblico l’altro deve essere privato.
Perché? Perché mi piace far notare che attualmente in Italia la maggioranza delle visite di idoneità allo sport viene effettuata presso studi o ambulatori privati e non in ambito pubblico come si potrebbe immaginare. Pertanto ritengo sia importante che le esperienze, significativamente numerose, derivanti dal mondo privato siano prese in considerazione e che, quindi, anche nelle commissioni del ministero della salute che studiano la tutela della salute delle attività sportive siano presenti responsabili di centri privati. Sinora non è mai stato così.
Tutto ciò comporterebbe un aumento dei costi? No. Lo strumento informatico in grado di raccogliere dati in tutta Italia, in grado di far lavorare tutti i medici sportivi italiani con lo stesso linguaggio, in grado di diventare il più grande archivio di dati medico sportivi, è un qualcosa che, come detto personalmente già utilizzo, non richiede particolari costi. Basterebbe mettere in rete il mio software (si chiama Cyclomed, ndr). Anche il sistema organizzativo a piramide che ho appena esposto, cioè un sistema ben confezionato e studiato costituito da studi ed ambulatori medici di primo livello, da centri di secondo livello e di terzo livello è facilmente attuabile. Basta identificare i centri e ratificarli. Costi aggiuntivi non ne vedo anche perché non possiamo dimenticare che stiamo attraversando un periodo di crisi e che quindi non risulta possibile fare castelli in aria.
Ma per quanto riguarda i costi delle visite di idoneità lei che pensiero ha? La ringrazio per la domanda. Tocca un tema che non può non essere oggetto di critiche. Forse è questo il punto debole di tutta la catena. I costi per una visita di idoneità agonistica in Italia variano tra i 30-35 e i 70 euro orientativamente. A regioni come la Toscana e la Lombardia, dove appunto vengono praticate tariffe di 70 euro, che ritengo sostanzialmente al passo con i tempi, si contrappongono regioni, come il Lazio e l’Emilia Romagna, dove i prezzi scendono a 35-40 Euro. Stiamo parlando di una visita specialistica eseguita da un medico che necessariamente deve essere uno specialista. Stiamo parlando di una visita che contempla la valutazione di molti organi ed apparati, che prevede necessariamente l’effettuazione di un elettrocardiogramma a riposo e dopo sforzo, di un esame spirometrico, della valutazione dell’esame delle urine. Una visita molto complessa che, se fatta bene, non può durare meno di 35-40 minuti. Le Responsabilità civili e penali del medico che la effettua non sono da sottovalutare. Il costo di 70 euro ritengo sia congruo. Nel Lazio e nelll’ Emilia Romagna ed in altre regioni, dove invece i costi scendono a 35-40 euro, qualcosa non va. Mi domando se ciò sia ragionevole o se non sia la premessa del fallimento. Perché, tanto per fare un esempio, il veterinario, per una visita al mio pastore tedesco, mi chiede 65 euro. Il mio cane non risponde a nessuna domanda del veterinario, non dice di che cosa sono morti i suoi genitori, che sintomi e che fastidi ha. E la visita dura 5-10 minuti. Dobbiamo prepotentemente riflettere perché la corsa al ribasso dei costi e soprattutto la mancanza di un controllo dei costi delle visite di idoneità può generare una scarsa qualità delle stesse.
Ma chi può contribuire a risolvere questo problema? Le famiglie ed anche i soggetti stessi che effettuano le visite.
Perché? Se un nostro figlio dovesse effettuare un intervento di ernia inguinale o di tonsillectomia e ci venisse chiesto, “scusi come si chiama il medico che effettua l’intervento?”, sono convinto che noi sapremmo dire nome e caratteristiche di quel dottore. Ciò per dire che sicuramente abbiamo cercato di scegliere un centro o un professionista validi. Se invece accade che nostro figlio dovesse effettuare una visita di idoneità, spesso accade che non conosciamo il nome del centro dove la visita sarà effettuata e quello del medico che la effettua. La ritengo una negatività del sistema visite di idoneità. Le visite di medicina dello sport devono essere visite qualificate, effettuate da professionisti estremamente competenti e qualificati, che, quindi necessariamente – come in tutti gli altri ambiti della medicina - devono poter essere puntualmente individuati e valorizzati per la loro competenza. Se mio figlio dovesse effettuare una visita di idoneità, le garantisco che farei di tutto per sapere chi la effettua, che caratteristiche ha quel medico e dove e come la effettuerà. Farei, in definitiva, di tutto per scegliere un bravo professionista.
In tal senso però bisogna sensibilizzare l’opinione pubblica. Certo che si. Non nascondo che sono diversi, soprattutto i ciclisti, che semplicemente per il fatto che pedalano ritengono di stare bene e di non aver bisogno di nulla ed in particolare di nessun controllo. Capita spesso di incontrate ciclisti, anche in età adulta, matura ed avanzata, che riferiscono una equazione terribilmente pericolosa. Quella di dire pedalo, pratico ciclismo, quindi sicuramente sto bene. La mia equazione è invece opposta. Suona così. Ho deciso di pedalare, di praticare il ciclismo, è uno sport molto impegnativo, voglio vedere molto bene se corro qualche rischio a praticarlo, come praticarlo meglio e con i maggiori benifici per la mia salute. Chiaro?
In generale, lei cosa sogna per risolvere e/o poter affrontare con la chiarezza, la semplicità ma anche la durezza che ci ha espresso, questo problema? Probabilmente, viste le ristrettezze economiche del periodo che stiamo attraversando in Italia, sogno una fondazione. Una fondazione nella quale il bilancio sia controllato in maniera ferrea e severa e che si ponga come obiettivo vero, reale, quello di sensibilizzare l’opinione pubblica su tutto quanto è stato esposto. Una fondazione di con un indirizzo chiaro, ossia quello di diffondere e far prevalere l’importanza della prevenzione; ma anche una fondazione di peso mediatico per poter entrare di diritto nelle stanze dove si affrontano i problemi e vengono prese le decisioni. Un organo indipendente che sia in grado di poter contribuire a ritoccare alcuni punti normativi e di far convergere le opinioni perchè possano essere prese le decisioni più giuste.
Intervista di Massimo Bolognini - direttore di Ciclonews.it
17 Settembre 2011
Salve Dottor Corsetti, le scrivo per avere dei chiarimenti che in realtà non ho ancora mai avuto dalle istituzioni che regolano il ciclismo.
Vorrei chiederle come è stato possibile che la vostra Associazione non abbia impedito all'Uci di mettere in opera il sistema del passaporto biologico senza averlo prima pubblicato su riviste scientifiche e sottoposto all'analisi del mondo scientifico cosi come si fa, come lei sa, per qualsiasi novità in campo medico scientifico?
Leggo molti pareri discordanti sui metodi attuali, ma nel frattempo solo alcuni corridori sono stati letteralmente distrutti con il massimo della pena, parlo di Caucchioli, Pelizzotti e De Bonis, nonostante l'Uci avesse minacciato la presenza di liste ben piu ampie.
La ringrazio cordialmente per la sua eventuale risposta e Vi faccio i migliori auguri da appassionato di ciclismo per il nuovo sito.
Questa domanda mi ruzzolava in mente da un po di tempo in quanto essendo appassionato di scienza e lettore della rivista "Science" so che tutti i ritrovati della scienza per avere una reale valutazione sono sottoposti al vaglio della comunita Medico-Scientifica.
Un proceso ancor piu lungo e travagliato spetta ai nuovi farmaci con il passaggio alla FDA per la validazione e certificazione.
Non mi sembra che l'Uci segua lo stesso percorso, non mi sembra che il Passaporto Biologico abbia avuto tale iter e nonostante l'autorevolezza di molti dei dottori che hanno partecipato alla stesura del progetto a mio modo penso sia stata necessaria l'integrazione di altri pareri ben piu autorevoli.
la sua frettolosa validazione anche in campo giuridico però , ha gia abbattuto la propria scure su degli atleti direi oltremodo colpendoli e di fatto completando indecorosamente la loro carriera.
Cordiali saluti, Fabio (Leggi la risposta)
Il Passaporto Biologico, messo a punto e proposto dalla WADA, è stato adottato dall’UCI nel 2007. Rappresenta una metodologia all’avanguardia nel tentativo di prevenire e sconfiggere il fenomeno doping. Nel 2007, allorquando l’UCI decise di introdurlo, se ne parlava ormai da qualche anno. Come tante altre volte in passato, l’UCI è stata la prima federazione internazionale ad introdurre tale strumento per contrastare il fenomeno doping e, a loro volta, i ciclisti professionisti delle squadre Pro Tour i primi atleti a confrontarsi con tale novità. Si è trattato dell’ennesimo primo posto del ciclismo che, nell’intento di contrastare la piaga del doping, ha adottato in molte occasioni, dal 2001 in avanti, metodologie nuovissime e, se vogliamo, qualche volta senza che avessero completato l’intero ciclo di rodaggio e verifica sul banco di prova scientifico. Non si può condannare tale scelta. Il doping andava contrastato in modo deciso e forte e senza gli indugi che sono stati tipici degli anni che vanno dal 1980 al 2000. Proprio il doping stava fortemente minando la credibilità dello sport del pedale ed era necessario arginarlo e tentare di sconfiggerlo definitivamente. La forza e la durezza dei metodi usati doveva essere perlomeno pari alla aggressività e alla diffusione esagerata del fenomeno. Va dunque rispettata l’idea e la volontà dell’UCI di introdurre il Passaporto Biologico che, peraltro, si è rilevato uno strumento di grande efficacia nell’individuare variazioni sospette di parametri ematici in taluni ciclisti, variazioni che hanno consentito di aumentare proprio per tali ciclisti il numero e la tempistica dei controlli antidoping veri e propri sul sangue e sulle urine. Il Passaporto Biologico si basa sull’analisi delle variazioni di alcuni parametri ematologici (emoglobina e reticolociti) analizzati in una serie di prelievi di sangue eseguiti (a sorpresa) in competizione (raro) o, più spesso, al di fuori delle competizioni e quindi a domicilio, nei luoghi di ritiro o di soggiorno per gli allenamenti. Tutto ciò può essere effettuato agevolmente solo perché dal 2006 i ciclisti professionisti hanno accettato di fornire la propria localizzazione, istante per istante e 365 giorni all’anno, agli enti di controllo, ossia alla WADA, all’UCI e alla organizzazione antidoping del comitato olimpico di appartenenza, il CONI in Italia. Inutile dire che sono stati i primi anche in tale caso. Un software statistico ed un programma dedicato, messi a punto dai ricercatori analizzano tutti i risultati dei test e costruiscono una curva di variazione dei parametri e, in particolare, atleta per atleta il limite superiore ed inferiore entro il quale i valori devono assestarsi per non far scattare i sospetti. Una variazione sospetta fa partire una serie di controlli antidoping mirati in quell’atleta e, al tempo stesso, il profilo dell’atleta viene sottoposto ad un gruppo di esperti che possono anche decidere di suggerire l’apertura di un vero e proprio caso di violazione delle normative antidoping. Il Passaporto Biologico, dunque, può anche venire utilizzato come prova indiretta di doping e quindi quale metodo sanzionatorio. Anche in questo caso il ciclismo vanta il primato di aver introdotto nell’impianto dell’antidoping una metodologia che si fonda su una prova indiretta, ossia di aver accettato che un atleta possa essere punito per l’elevata probabilità che una variazione dei suoi parametri ematici possa essere stata determinata dall’uso di metodi o sostanze proibite. Alcune altre federazioni internazionali sembrano interessate o stanno iniziando ad utilizzare il Passaporto Biologico. Nessuna al momento come metodo antidoping vero e proprio. Intanto dal novembre 2007, epoca dei primi prelievi, sono passati quattro anni. In questo periodo di tempo gli studiosi e i ricercatori, quelli che hanno proposto il metodo, quelli che lo hanno adottato ed anche il gruppo di esperti WADA cui è affidato il giudizio dei casi sospetti, hanno avuto la possibilità di rodare e verificare diversi aspetti e di costruire le convinzioni scientifiche che in futuro dovrebbero consentire di non commettere errori. Un metodo indiretto di doping è comunque e sempre un sistema che, potenzialmente, può fallire. Il mio pensiero, l’ho dichiarato più volte pubblicamente, è che bisogna fare di tutto e anche di più perché il sistema non corra il rischio di punire un innocente. Ed il presupposto vincente in futuro, in tema di metodi indiretti, dovrà essere sempre quello che è preferibile che sfugga un colpevole piuttosto che punire un innocente. Sembra essere solo una semplice teoria fondata sul buon senso ma è anche la più accreditata in ambito scientifico quando si parla di specificità e sensibilità delle metodiche.
16 Febbraio 2011
Intervista al Dott. Roberto Corsetti,
Presidente della Associazione Italiana Medici del Ciclismo (A.I.Me.C.)
Autoemotrasfusione
Attenzione alle follie (Leggi la risposta)
Nell’intento di capire sempre di più il fenomeno doping, premessa secondo noi importante per debellarlo definitivamente, chiediamo al Dott. Roberto Corsetti, Presidente dell’A.I.Me.C., se è oggi possibile praticare l’autoemotrasfusione tranquillamente a casa propria? Teoricamente si. E’ necessario, ovviamente, conoscere bene ogni fase della pratica, dal prelievo alla reinfusione, e rispettare le regole fondamentali della conservazione del sangue. Nella realtà, è bene sottolinearlo, il percorso è pieno di insidie e di rischi molto gravi per la salute dell’individuo. E quindi assolutamente da evitare. Peraltro trattasi di un metodo proibito dalle attuali normative sportive e perseguibile, in Italia ed in altri paesi, anche sotto il profilo giuridico in quanto considerato reato (legge 376/2000).
Qualche ricordo di storia. Quando si è iniziato a parlare di autoemotrasfusione nello sport? Agli inizi degli anni 80. Dopo i Giochi Olimpici del 1980 a Mosca si ventilò l’ipotesi che un mezzofondista finlandese potesse aver fatto ricorso a questa metodica. Ma forse già prima, diversi anni prima, altri sportivi nordici del mezzofondo e del fondo potrebbero averla usata. Certo il 1984 è una stagione storica per l’autoemotrasfusione. Recentemente un giornalista famoso ha scritto su TuttoBICI un articolo-intervista, poi visibile anche su Tuttobiciweb.it, nel quale, riferendosi al record dell’ora di Francesco Moser del gennaio 1984, cita testualmente: “La manipolazione del sangue, con l’avvento dell’epo di varie generazioni, ha rappresentato una vera piaga non solo per l’antico sport delle due ruote ma per tutte le discipline, ma questa “deviazione” nulla toglie ai metodi innovativi introdotti dall’Equipe Enervit”. Qualche riga più sotto continua “in ogni caso quella duplice impresa resta impressa nella storia del ciclismo, anche se a distanza di anni il campione “acqua e sapone” come l’aveva definito Candido Cannavò sulla Gazzetta dello Sport del 24 gennaio ’84 ammise di aver fatto ricorso all’autoemotrasfusione. Si disse allora che i continui rinvii del record non fossero dovuti ad avverse condizioni metereologiche ma al mancato arrivo del sangue dall’Italia (giunto in Messico da Houston con una valigia diplomatica perché un funzionario dell’ambasciata italiana in Messico era andato a recuperare il prezioso carico negli Stati Uniti Stati Uniti dove era giunto senza problemi). Ed infine “Il professor Giovanni Tredici, che ha seguito giorno dopo giorno Moser nella sua straordinaria avventura ha detto: «Sotto l’aspetto psicologico l’autoemotrasfusione ha avuto un ottimo impatto sul corridore. Analizzando la curva di crescita del suo rendimento, non ho riscontrato particolari significativi dopo che l’ha praticata. Credo quindi che avrebbe migliorato i record dell’ora anche senza farvi ricorso».” Dopo le Olimpiadi di Los Angeles dell’agosto 1984 l’autoemotrasfusione fu, di fatto, vietata dal CIO. Solo a partire da quel momento tale pratica è entrata nel libro nero della leggenda del doping nello sport. Successivamente soppiantata da metodi dopanti più efficaci (EPO, NESP, CERA), questa tecnica è tornata in auge nei primi anni del 2000, dal momento che, al contrario delle varie eritropoietine, non esiste ad oggi un metodo antidoping convalidato in grado di smascherarla.
In cosa consiste l’autoemotrasfusione? Si tratta di una trasfusione di sangue (o di parti del sangue, ad esempio globuli rossi concentrati), ottenuta attraverso un predeposito, in cui il donatore e il ricevente sono la stessa persona. Alla base, necessariamente, deve esserci un deposito ottenuto attraverso il prelievo di sangue intero estratto da una vena e raccolto in una sacca di plastica. L’autoemotrasfusione viene anche definita trasfusione autologa. Si definisce invece omologa la trasfusione di sangue e/o dei suoi componenti, ottenuti sempre attraverso un predeposito, in cui il donatore e il ricevente non siano la stessa persona ma chiaramente risultino emocompatibili. Quest’ultima metodica, al contrario della prima, è smascherata facilmente dai controlli antidoping e la triste storia del doping annovera, proprio negli ultimi anni, qualche caso illustre di atleta risultato positivo a causa di una trasfusione omologa ossia effettuata utilizzando sangue emocompatibile di altro individuo.
Perché l’autoemotrasfusione è stata utilizzata e, purtroppo, sembra essere ancora utilizzata nello sport? I presupposti fisiologici e metabolici di tutte le discipline aerobiche rendono evidente che un maggiore quantitativo di globuli rossi, e quindi di emoglobina, si traduce in un notevole aumento del trasporto di ossigeno ai muscoli in attività e quindi in una performance notevolmente migliore. Tale vantaggio è stato quantificato nel 5/8/10%, anche se, trattandosi di pratica illecita, non esistono studi clinici in grado di quantificare con certezza le differenze di prestazione derivanti dall'autoemotrasfusione. E’ chiaro che anche se si trattasse solo del 5% in atleti di elite tale percentuale definirebbe un incremento delle performances molto importante.
I principali rischi? Sono soprattutto quelli legati alla alta probabilità della contaminazione del sangue attraverso virus e batteri e, non meno importanti, quelli derivati dalla non perfetta conservazione del campione prelevato. La possibilità di una contaminazione del campione di sangue e/o di un cattivo stato di conservazione determina rischi, cosiddetti maggiori, per i quali è facile arrivare a rischiare la vita. Sono, poi, presenti altri rischi, anche essi non trascurabili, legati al fatto che l'introduzione di una grossa quantità di sangue nell’organismo può portare a scompensi notevoli. La pressione sanguigna può risultare notevolmente aumentata in relazione all’aumento della viscosità del sangue. L’aumentata viscosità e la conseguente maggiore aggregazione del sangue possono essere alla base dell’innesco di fenomeni assai gravi: formazione di coaguli di sangue, e quindi, possibili embolie, ictus, infarti e tra questi ultimi, in particolare quelli a carico dell’intestino. In ultimo non vanno dimenticati i possibili effetti lesivi sugli organi interni (fegato, pancreas, reni) correlati al notevole apporto di ferro che può portare a gravi malfunzionamenti.
E’ dunque una pratica assai pericolosa e da evitare? Voglio augurarmi che alla decisione di non ricorrere alla autoemotrasfusione contribuiscano in primis motivi di ordine morale ed etico. Si tratta infatti, come già detto, di una pratica vietata dalle attuali normative antidoping a partire dal 1984. Mi piace pensare che l’etica e la morale possano essere sufficienti ad impedire il ricorso ad una pratica proibita. Qualora così non fosse è bene aggiungere che con la pratica della autoemotrasfusione si infrange anche la legge dello Stato Italiano sul doping (376/2000) e si rischia la galera. Se anche questo non dovesse essere sufficiente vale allora la pena sottolineare che essa è una pratica delicata anche in ambiente ospedaliero specialistico e che diventa, pertanto, spaventosamente rischiosa se eseguita tra le mura domestiche. Rischiosa a tal punto da poter provocare la morte.
Scendendo un pochino più nel dettaglio, come si effettua un’autoemotrasfusione? Un'atleta che decide di sottoporsi ad autoemotrasfusione si vedrà prelevare (o si preleverà) una quantità di sangue solitamente non inferiore a 500 ml. Tutto ciò circa 30-40 giorni prima del momento in cui si intende raggiungere il massimo delle prestazioni agonistiche. Durante i 20-25 giorni successivi l’organismo dell'atleta tenderà naturalmente a rimpiazzare il sangue prelevato ritornando, pertanto, in condizioni di normale efficienza. Va evidenziato come, nel periodo immediatamente successivo al prelievo di sangue, l'individuo si troverà di fronte ad un evidente calo delle prestazioni. Trascorsi 20-25 giorni dal prelievo un soggetto giovane e in piena salute ha solitamente già ricostituito la quota di sangue prelevata e, pertanto, è facile immaginare quali possano essere i vantaggi sulla performance nel momento in cui, uno o due giorni prima del grande evento agonistico, egli decida di reinocularsi il sangue precedentemente prelevato. Si registra, infatti, un immediato aumento della massa eritrocitaria e un conseguente incremento del 10% circa dell'emoglobina, con punte del 15%. L’incremento delle capacità fisiologiche e metaboliche è evidente e non si capisce davvero come qualcuno possa pensare ed affermare, come è successo, che “dopo una autoemotrasfusione nell’analisi della la curva di crescita del rendimento di un ciclista non siano stati riscontrati particolari significativi”.
Ma l’autoemotrasfusione è una pratica medica utilizzata solamente allo scopo di aumentare le performances degli atleti impegnati in discipline aerobiche di resistenza? No, nella maniera più assoluta. Tale tecnica è di normale utilizzo negli ospedali per pazienti che devono essere sottoposti ad interventi chirurgici di una certa importanza per i quali, quindi, si possa prevedere una perdita considerevole di sangue e di globuli rossi. In tali casi, se il paziente prima dell’intervento sta bene, si preferisce fargli fare una donazione di circa 450 ml di sangue una sola volta, o anche due volte, nei 30-40 giorni che precedono l’intervento. Il vantaggio è quello di reiniettare in caso di necessità durante l’intervento lo stesso sangue del soggetto sottoposto alla operazione chirurgica piuttosto che quello di un donatore emocompatibile. Si riducono così sensibilmente i rischi degli effetti collaterali avversi di una trasfusione omologa e non autologa.
Torniamo al nostro possibile tentativo di autoemotrasfusione fai da te. Il prelievo e la reinfusione di sangue possono teoricamente essere effettuati nella propria abitazione? Certo è possibile. Comunque accettando gli incommensurabili rischi del fai da te relativi ad una metodica che anche in Ospedale richiede la massima attenzione e l’osservanza di procedure standardizzate e scrupolose. Chiaramente sono necessari dei presidi. In particolare non si può fare a meno della sacca in PVC nella quale il sangue va conservato. Non dimentichiamo che il sangue può essere conservato solo in sacche dedicate e che tale presidio è un prodotto ad uso esclusivamente ospedaliero. Se presente in una normale abitazione qualcosa di illecito, di molto grave e pericoloso necessariamente deve essere già successo. In particolare, o la sacca deve essere stata rubata in un ospedale provvisto di centro trasfusionale o acquistata in modo illegale tramite internet. Il rischio delle due vie descritte, le uniche che potrebbero consentire ad un cittadino italiano di poter disporre in casa propria di una sacca per conservare il sangue, è dunque elevatissimo. Si tratta in entrambi i casi di reati perseguibili penalmente con pene assai dure. Per fortuna, in tal senso, in Italia sono attive diverse procure della repubblica mediante intercettazioni ambientali e telefoniche. Pertanto non è facile capire come possa finire una sacca per la conservazione del sangue in una abitazione privata. Peraltro una sacca rubata in un ospedale o acquistata tramite internet potrebbe non trovarsi in condizioni ideali di conservazione in quanto il contenuto (un particolare liquido anticoagulante) potrebbe essersi deteriorato (è in tal senso sufficiente che la sacca resti per più di un ora a temperature superiori ai 30-35 gradi) o potrebbero essere state compromesse le condizioni di sterilità.
Altri rischi legati al prelievo? La contaminazione virale o batterica del sangue e/o della sacca. Nei centri trasfusionali il tubicino che fuoriesce della sacca, una volta finita la fase di prelievo, viene termosaldato in modo sterile con un apposito strumento mentre nel fai da te, probabilmente, potrà essere solo annodato su se stesso. Il che aumenta spaventosamente i rischi della contaminazione. Inoltre negli ospedali le trasfusioni di sangue vengono sempre effettuate in ambienti protetti. Il personale infermieristico è dotato di guanti monouso e di mascherina e la regione della pelle nella quale viene introdotto l’ago subisce un trattamento preventivo particolare. Il solo contatto con l’aria è pericolosissimo per il sangue che deve essere poi conservato. Lo stesso dicasi per la fase della reinfusione. Chi ha fatto donazioni o ha subito, dopo un intervento chirurgico, una trasfusione di sangue sa bene quanto siano delicate le rispettive procedure in ambiente ospedaliero.
Una volta effettuata il prelievo di sangue dove e come deve essere conservato il sangue? Il sangue intero e/o i concentrati di globuli rossi vanno conservati in appositi frigoriferi a una temperatura fra i + 2°C e i + 6°C, per un massimo di 35/40 giorni a seconda della soluzione additiva anticoagulante presente nella sacca. I modelli di frigoriferi usati nei centri trasfusionali possono conservare da 30 a 1.400 sacche e garantiscono, grazie al sistema elettronico proprietario installato, il mantenimento della temperature interna a + 4°C, come richiesto dalle vigenti normative internazionali. Se si pensa alla tecnica fai da te ugualmente il sangue prelevato dovrà essere conservato costantemente a temperature comprese tra + 2° e + 6°: Il rischio, spaventosamente alto, è che, usando il frigorifero di casa, nessuno può garantire che la temperatura sia rimasta costante sebbene ipoteticamente si potrebbe ricorrere a termostati di controllo con una memoria delle temperature di esercizio rilevate (termoregistratori) o frigoriferi provvisti di generatore. Anche questi, però, sono strumenti che difficilmente possono far parte della dotazione di una comune abitazione privata.
Altri possibili rischi? Sempre relativamente alla conservazione della sacca anche una temperatura troppo bassa può creare problemi. Un congelamento eccessivo rompe infatti la membrana del globulo rosso ed il contenuto dei globuli rossi, liberato nel sangue, diventa tossico. Facile, in tal caso, il rischio di blocco renale e di insufficienza renale acuta. Spesso, in questi casi, si tratta di soggetti che non recuperano mai perfettamente la funzionalità renale e che nei primi giorni successivi al blocco renale devono essere sottoposti ad emodialisi. Il rischio di compromissioni associate della funzionalità cardiovascolare è elevato e anche il rischio di perdere la vita in acuto è altissimo. Lo stesso terribile rischio contemplato in situazioni in cui venga reinfuso sangue di altro individuo non compatibile o sangue contaminato da virus o batteri.
Terrificante. Ma una cosa ancora ci sfugge? In Spagna negli ambiti della tristemente famosa Operacion Puerto si è sentito parlare di una moltitudine di sacche conservate a temperature molto basse intorno ai - 60°. Non capiamo. Si tratta di un ambito completamente diverso legato alle possibilità di conservazione del sangue e dei suoi derivati. Quello di cui abbiamo parlato sinora è riferito ad una conservazione di sangue intero o di concentrati di globuli rossi valida solo ed esclusivamente per un lasso di tempo di 35-40 giorni. Qualora si renda necessario una conservazione più duratura (diversi mesi – qualche anno) è necessario congelare il sangue. In tal caso però bisogna usare alcuni accorgimenti. Abbiamo infatti detto prima che il congelamento (temperature sotto lo zero) rompe la membrana dei globuli rossi e provoca la fuoriuscita del contenuto che è tossico e letale. Per ovviare al problema della rottura della membrana il concentrato di globuli rossi viene trattato, prima di essere congelato, con una soluzione di glicerolo. Il glicerolo protegge la membrana del globulo rosso e consente il congelamento dei concentrati che solitamente avviene in particolari congelatori molto costosi (centinaia di migliaia di Euro) che creano temperature costanti intorno ai – 60 °/ - 80°. Una volta scongelato, il concentrato di globuli rossi non può essere reiniettato in quanto il glicerolo è tossico. Si rende necessario, dunque, un lavaggio che richiede l’impiego di altri presidi dedicati assai costosi. Stupisce chiaramente che quella organizzazione spagnola, del tutto privata, fosse in possesso di simili strumenti che, spesso, non fanno parte neanche della dotazione della maggior parte dei centri trasfusionali. Stupisce certo, ma rende ragione degli enormi interessi economici legati a quella organizzazione. Cosa che ancora una volta porta a chiedersi: è possibile che fosse stata messa in piedi una simile e assai dispendiosa organizzazione se poi erano coinvolti solo pochi ciclisti? Diverso il caso di una clinica austriaca di cui si è sentito parlare negli ultimi anni. Trattandosi di una clinica l’organizzazione e la disponibilità di strumenti costosi e all’avanguardia è, sia pur di poco, meno eclatante.
Quale è il vantaggio di poter conservare il sangue per tanto tempo? Sicuramente quello che gli atleti potevano fare il/i prelievo/i nella stagione invernale nella quale non erano presenti impegni agonistici e reiniettarlo nella stagione delle corse. Va ricordato, però, che il concentrato di globuli rossi una volta scongelato e lavato dal glicerolo deve necessariamente essere utilizzato entro le 24-36 ore. Immaginate quindi gli enormi rischi legati al trasporto ad esempio da Madrid a Parigi o da Madrid a Venezia. Chi garantisce che la conservazione in quel lasso di tempo possa essere ottimale? Chi garantisce che la sacca che arriva a destinazione sia in buone condizioni? E chi garantisce che contenga sicuramente il sangue di colui che deve riceverla?
Ora torniamo alla autoemotrasfusione fai da te, “casareccia”. Come giudica chi dovesse decidere di sottoporsi ad una simile pratica? Un folle. Un folle con tre sole possibilità. La disintossicazione mentale in una comunità, il ricovero in un ambiente psichiatrico, la galera.
11 Gennaio 2011
Sono un odotoiatra, appassionato di ciclismo che pratica a livello amatoriale, volevo chiedere secondo la sua esperienza, quale incidenza hanno le patologie a carico del rachide cervicale e del distretto cranio-mandibolare i ciclisti visitalti e come eventualmente le risolvete .
Vorrei lavorare nell' ambito sportivo come odontoiatra : indicazioni e consigli .
Ci si può iscrivere all' Aimec?
Cordiali saluti
Fabrizio Caricato (Leggi la risposta)
Preg.mo collega, in ordine le risposte. L'incidenza delle patologie a carico del rachide cervicale non è molto elevata nei ciclisti mentre appare più significativa la presenza di disturbi del distretto cranio-mandibolare. La soluzione dipende dal tipo di patologia e dal fattore etiopatologico che l'ha scatenata. Si cerca sempre, ovviamente se possibile, di rimuovere la causa e non di rado si è costretti a ricorrere a specialisti del settore. La ringarzio per il Suo interesse al nostro mondo. Per lavorare come odontoiatra nel mondo del ciclismo, e della sport in genere, non ci sono consigli particolari se non quello di frequentare i Convegni di aggiornamneto dove si possono fare sempre conoscenze utili e stimolanti. Segua sul sito della Federazione Medico Sportiva la sezione Convegni e, già da ora, fissi sull'agenda l'appuntamento con il prossimo Convegno della Associaszione Italiana Medici del Ciclismo (A.I.Me.C.) ch si terrà nel terzo week end di novembre 2011. Ulteriori notizie in merito Le troverà sul sito dell'A.I.Me.C. (www.aimec.it <http://www.aimec.it> ) che, in questo momento, è in via di rifacimento ma che sarà in rete sicuramente a partire da metà febbario. Se poi si vorrà iscrivere alla nostra dinamica e stimolante Associazione ugualmente troverà sul sito, a partire da metà febbraio, tutte le necessarie indicazioni. Per ora La saluto con la speranza di poterLa salutare di persona in un prossimo evento A.I.Me.C.
21 Dicembre 2010
Salve, volevo una sua opinione, su i tanti ragazzi che usano sostanze chiamate lecite,ma rigorosamente per endovena e parlo per le categorie juniores, elite e under 23.
LA RINGRAZIO
Paolo (Leggi la risposta)
Preg.mo Paolo, La ringrazio per la domanda. Devo dire innanzitutto che, per fortuna, si parla di sostanze definite, e da tutti considerate, lecite. Iniziare a parlare e a porsi il problema dell'utilizzo di tali sostanze fa capire chiaramente quali e quanti passi sono stati fatti ultimamente dal ciclismo nella lotta al doping. Mi piace sottolineare questa premessa. Veniamo ora al quesito. Parliamo, è bene precisarlo, di sostanze non inserite in nessuna lista di sostanze e/o metodi proibiti. E, probabilmente, Lei si riferisce alle vitamine, ai disintossicanti, agli epatoprotettori, agli antiossidanti etc. Nella Sua domanda, comunque, non mi convince l’affermazione “tanti ragazzi che usano sostanze chiamate lecite”. Già qui c’è qualcosa che non va. Intendo dire che mi auguro che i ragazzi ai quali Lei si riferisce non usino queste sostanze autonomamente e/o seguendo le indicazioni di amici e conoscenti e senza quindi il consiglio di un Medico. Ritengo che nello sport, come nella vita di tutti i giorni, ci si debba astenere dall’utilizzare farmaci se non consigliati da un Medico. In secondo luogo sono dell’idea che bisogna limitare il ricorso alla via endovenosa alle reali necessità. A tal proposito Le ricordo che il regolamento internazionale della WADA, recepito anche dalla Legge Italiana sul doping 376/2000, vieta nella maniera più categorica il ricorso alle infusioni, dette anche flebo. Per essere chiari si tratta di tutte quelle formulazioni farmaceutiche, che sebbene non contengano prodotti proibiti, sono contenute in flaconi dai 50 ml ai 500 ml (Esafosfina, Glu-Phos, Glucosata, Freamine etc. etc.). Esse, dunque, sono vietate per tutti gli sportivi agonisti di qualunque età e categoria. Non è vietata invece la somministrazione endovenosa di sostanze, ovviamente lecite, contenute in fiale dai 20 ml in giù. Chiaramente anche queste formulazioni, sebbene non vietate, devono essere utilizzate quando se se ne ravvisi la necessità. Personalmente, ma in tal caso parlo solo a titolo personale, sono convinto che nelle categorie giovanili, da giovanissimi sino a Juniores, dovrebbero essere limitati prepotentemente i farmaci di ogni tipo anche in compresse ad eccezione di quelli che servono per curare le malattie. Qualora un atleta giovanissimo, esordiente, allievo,o juniores mostri segni di affaticamento e/o astenia ritengo che il miglior trattamento debba e possa essere il riposo. Quindi saltare qualche allenamento e/o qualche competizione. Lascerei, invece, ad un Medico, esperto in Medicina dello Sport applicata al Ciclismo e coscienzioso, la prevenzione ed il trattamento di stati di affaticamento, di sovraccarico epatico, di smaltimento delle tossine e dei radicali liberi e/o di calo delle difese immunitarie nei ciclisti agonisti delle categorie superiori (Under 23 ed Elite); essi effettuano, infatti, allenamenti e competizioni di impegno e durata notevolmente maggiori. Anche in tal caso però Il Medico dovrà rifarsi alle necessità evitando inutili abusi e, soprattutto, di infrangere le normative vigenti. Uno dei farmaci dei quali più comunemente si abusa è il ferro. E il ferro, quando la quantità nel sangue e nei depositi è superiore alla norma, inizia a fissarsi nei tessuti, cuore compreso, creando possibili danni. A differenza delle vitamine e dei comuni disintossicanti, l’abuso di ferro può quindi essere pericoloso. Tale abuso lo combatterei in maniera più aggressiva di quanto si faccia. In particolare mi auguro che la Commissione Tutela della Salute della Federazione Ciclistica Italiana reintroduca nelle categorie juniores, under 23 ed Elite l’obbligatorietà di effettuare, in occasione dei tre controlli del mese di gennaio, aprile ed agosto, un dosaggio della ferritina. Nei professionisti, dal 1999. è obbligatorio effettuare tale dosaggio ben quattro volte l’anno, ovviamente, insieme a molti altri parametri. Ciò ha prodotto i risultati desiderati.
17 Novembre 2010
Cosa vi aspettate da questo servizio? (Leggi la risposta)
Nulla e tanto al tempo stesso. Ci piacerebbe riuscire a trasmettere in modo chiaro un concetto. Il Medico del ciclismo, oggi, è un professionista che ha un percorso formativo lungo ed importante sempre fondato su una grande e pura passione per lo sport e per il ciclismo in particolare. Si tratta di un professionista che rappresenta pertanto la figura centrale di tutto ciò che ruota intorno alla Tutela della Salute del Ciclista e alla Tutela della Salute del Ciclismo, anche e soprattutto, attraverso la prevenzione del doping.
17 Novembre 2010
La disponibilità dell’A.I.Me.C., accordata a questa iniziativa, può considerarsi una risposta, seppure relativa, a quanti vedono con sospetto la medicina applicata allo sport? (Leggi la risposta)
Non abbiamo nulla da nascondere e ci spiace intuire che alcuni, per fortuna pochissimi, ancora oggi possano guardare con sospetto la Medicina dello Sport. Oggi, per rispondere a quei sospetti ingiustificati e fuori luogo, mi piace ricordare che il Medico dello Sport che svolga la mansione di Medico Sociale e/o di Squadra, quindi con responsabilità grandi e dirette, nelle squadre giovanili, dilettantistiche e professionistiche è semmai il primo vero “carabiniere” interno al sistema. All’interno dello staff tecnico il Medico Sociale e/o di Squadra rappresenta il primo baluardo nella lotta al doping. Se non sbaglio dal 1998, anno dell’inizio delle prime indagini e perquisizioni della magistratura ordinaria, ad oggi non è stato mai rinviato a giudizio o condannato per fatti inerenti il doping nessun Medico Sociale e/o di squadra quindi facente parte dello staff tecnico della società. Nella nostra Associazione, peraltro, lo Statuto parla chiaro. Un socio non può avere un rinvio a giudizio in corso o essere stato condannato per vicende di doping.
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